L’Italia della ricerca scientifica e del biotech (dal campo agroalimentare alla ricerca farmaceutica e sanitaria), si sta dimostrando sempre più competitiva a livello mondiale, nonostante gli investimenti pubblici non siano paragonabili a quelli di altre realtà europee ed extraeuropee.
Il prodotto dell’intelletto del Bel Paese è molto apprezzato, ma spesso e volentieri non si riesce a proteggerlo, a farlo crescere e a renderlo profittevole come si dovrebbe. Il problema, spiega Antonio Graziano, ceo di Hbw–Rigenera e responsabile Salute del Forum italiano per l’export, va ricercato nella mentalità, nell’approccio all’imprenditoria e agli investimenti. Spesso, in sintesi, si pretende di vedere immediatamente il risultato di un finanziamento senza pensare che, magari, ci voglia del tempo affinché maturino le condizioni.
Senza questo cambio di passo, questo step più culturale che tecnico, nonostante l’Italia abbia aumentato significativamente gli investimenti nel settore biotech, con oltre mezzo miliardo di euro dal Pnrr e ulteriori 123 milioni dai fondi strutturali 2014-2020, il nostro Paese avrà sempre difficoltà a competere con i grandi player comunitari.
«Il primo problema – sottolinea Graziano – quando s’identifica un nuovo prodotto è il tempo di latenza che c’è tra la ricerca, lo sviluppo, la certificazione e poi l’effettiva messa in commercio del prodotto stesso. Fatto salvo nei periodi emergenziali, pensiamo al Covid, dove un po’ si son cercate delle vie accelerate, normalmente i tempi di latenza possono essere fatti di anni. Le nuove normative Mdr allungano finanche questi tempi perché hanno reso obbligatori dei passaggi di validazione clinica che prima non c’erano».
Quindi è tutto un tema di timing, «Nel momento in cui s’investe su un asset biotecnologico non possiamo pensare di approcciare il problema come si approccia una materia di natura immobiliare o fondiaria. Compro l’immobile oggi, lo metto a reddito domani. Magari faccio una tinteggiatura, cambio i serramenti e di fatto lo metto a reddito e io con l’affitto vado a pagare la rata del mutuo».
Nella ricerca, nello sviluppo e nella produzione di un brevetto completamente nuovo, tutto è diverso.
«Nel biotech, tra il momento in cui io compro l’immobile e quello in cui lo metto a reddito, può voler dire aspettare, nel migliore dei casi, 5… 6… 7… 8 anni. I fondi, pubblici e privati, devono avere una visibilità finanziaria molto più lunga di quella a cui l’investitore classico è abituato. Basta guardare venture come Amazon o Tesla: finché sono diventate profittevoli hanno impiegato anni». Lo Stato, o chi per lui, deve essere in grado di sostenere e pazientare finché non esistano tutte le condizioni adatte affinché queste iniziative producano un valore.
«Poi – sottolinea Graziano – magari non tutte diventeranno profittevoli, anzi, molti di questi progetti falliranno. Ma non per questo il settore non deve essere sostenuto e incoraggiato. Altrimenti perderemo un treno tecnologico che non saremo più in grado di recuperare». È un po’ come un bambino che dimostra una particolare predisposizione verso una materia specifica: ha bisogno di crescere, studiare, capire, apprendere. Non si può certo cercare di farlo entrare nel mondo del lavoro a 10 anni. C’è bisogno di credere e investire su di lui per anni prima che possa iniziare a lavorare per una grande azienda. «Quindi il tema è: noi per quanto tempo investiamo», dice ancora il numero uno di Hbw-Rigenera.
Ma investire senza proteggere l’investimento potrebbe essere controproducente. Diventa fondamentale, quindi, che le Istituzioni salvaguardino la proprietà intellettuale italiana. Un tema su cui Graziano si è speso a lungo e continua a battersi finanche in questi giorni, dopo l’istituzione del Tribunale dei brevetti a Milano, dove è stata trasferita la sede che prima era a Londra.
«Il trasferimento del Tribunale dei brevetti a Milano è un’ottima notizia per le aziende italiane e testimonia un’attenzione sia dell’Italia, che ha sostenuto chiaramente questa iniziativa, che delle istituzioni europee che hanno poi consentito questo trasferimento. Al di là però degli aspetti formali, c’è da fare anche un passaggio di natura culturale, che negli Stati Uniti per esempio è molto più forte. La tutela della proprietà intellettuale serve a difendere quel bambino fino a quell’età in cui, ormai cresciuto e diventato abbastanza forte, è capace di vedersela da solo. Proteggerla significa difendere quelle invenzioni, quelle scoperte, che diventeranno i pilastri dell’economia di domani. Guardare invece la violazione, che sia di natura musicale, artistica o di qualunque tipo, come un fenomeno di costume e non come un problema di sistema, è un grave misunderstanding. Togliendo risorse alla protezione, rischi che quel prodotto, quella innovazione, quel brevetto non producano più nulla. Polverizzando investimenti, risorse e tempi. Finanziamenti fatti su quella struttura e su tutto il sistema scientifico che ruota attorno. Non dimentichiamoci che dietro a un’azienda, a una start-up, spesso e volentieri ci sono atenei e istituti di ricerca pubblici. Non è che si voglia proteggere la ricchezza di un soggetto, ma la ricchezza culturale del sistema accademico, scientifico, artistico, che ha generato quell’idea, quell’opera teatrale, quella canzone, quel prodotto gastronomico. Perché l’Italia è questo: alto valore aggiunto di natura intellettuale. E se non lo proteggiamo, non ha più senso fare investimenti, dovremo andare a fare una concorrenza di basso livello».
Ma spesso i nostri ricercatori e imprenditori non riescono a sfruttare pienamente le opportunità disponibili.
«Il mercato europeo, di cui l’Italia fa parte, è in gran parte saturo. Si produce tanto e bene, ed essendo un mercato particolarmente interessante da un punto di vista economico, viene chiaramente aggredito da aziende straniere, che hanno il proprio prodotto al di fuori della comunità europea. L’imprenditore italiano ha un problema strutturale, perché il primo mercato che ha è il vicino di casa. Se il mercato del vicino di casa è già saturo, perché nell’isolato ci sono altri prodotti come il tuo e c’è addirittura qualcuno che viene ogni mattina dal Paese vicino con un camion a vendere, è chiaro che non c’è spazio. Allora bisogna andare fuori, ma questo significa internazionalizzare l’azienda. È un processo non così semplice e, soprattutto, che in alcuni casi andrebbe fatto all’origine e non come secondo passaggio. Bisognerebbe aprire il primo punto vendita direttamente all’estero. Ma le normative, le lingue, i costi, i tempi per andare a investire all’estero non sono alla portata di tutti, né da un punto di vista di volumi, né economico, né da un punto di vista procedurale e di confronto con le istituzioni straniere, tra l’altro su prodotti tecnologici. Inoltre anche all’estero ci sono delle regole da rispettare. Conoscerle e approfondirle non è sempre così semplice».
Ma a livello mondiale si prevede che il mercato del biotech, nel 2028, sarà tre volte più grande rispetto ad oggi. L’Italia è in grado di mantenere il passo con gli altri Paesi europei per sfruttare questa crescita? Quali settori specifici dovrebbero essere prioritari per gli investimenti futuri? «L’Italia – prosegue Graziano – è assolutamente in grado perché ha un sistema scientifico e accademico molto forte ed estremamente efficiente. A fronte di investimenti inferiori rispetto a quelli di altri paesi, produce come e molto di più».
I settori su cui investire «sicuramente, a mio parere, sono quelli del biotech sanitario, perché c’è una richiesta sempre maggiore, con l’invecchiamento della popolazione mondiale, di prodotti destinati al controllo dell’aging, cioè dei processi di invecchiamento». Conclude infine: «Poi non posso non considerare tutto ciò che è l’agrifood, quindi le biotecnologie al servizio dell’agricoltura, nel rispetto chiaramente delle regole e delle specificità di flora e fauna. Però sicuramente le biotecnologie possono aiutare anche in quel settore a fornire prodotti di eccellenza e prodotti di qualità».