Il Pd è stato il primo partito il Liguria, protagonista di un exploit di lista che lo ha visto doppiare FdI. Eppure, in quanto partito capofila della coalizione di centrosinistra che ha espresso il candidato, è il primo dei perdenti. Uno smacco cocente che, a 24 ore dalla chiusura delle urne, innesca un rimpallo di accuse – sotterranee e non – sulla gestione della partita, con critiche che tirano in ballo, inevitabilmente, la segretaria Elly Schlein.
Alessandro Alfieri, membro della segreteria nazionale ed esponente di punta dell’area riformista dem, punta il dito contro i “veti” nella coalizione e parla di “un errore politico” l’aver dovuto “scegliere tra il 6% di Conte e il 2% di Renzi”, perché il no a Iv è stato “percepito come un no alla parte centrista della coalizione”. Ora serve concentrarsi sulle sfide in Emilia Romagna e Umbria, “ma subito dopo – avverte – serve una discussione seria”.
Sulle prossime regionali è completamente concentrata Schlein, secondo cui le polemiche non pagano e i numeri ottenuti dal Pd attestano che la strada “unitaria” è quella giusta. Dopo il 18 novembre sarà chiamata ad un chiarimento politico, anche con gli alleati, per perimetrare il fronte progressista. Dentro il partito, per certi versi, il processo sembra già partito.
Il presidente del partito ed ex governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, la dice diversamente, ma in sostanza anche lui esorta a “riflettere (e agire) per fare un passo avanti risolutivo nella costruzione di un centrosinistra nuovo, capace di vincere”. Per Debora Serracchiani, anche lei un passato da governatrice, “l’interdizione non è più un’opzione accettabile e qualcosa va rivisto nel rapporto con un mondo di cosiddetti moderati. Non mi sembra politicamente saggio lasciarli soli alle lusinghe di Forza Italia e simili”.
Alle esternazioni in chiaro si sommano i commenti off the record di diversi dem – anche di peso – che lamentano la resa ai “veti” del Movimento e sottolineano la necessità di una leadership “più forte” che sappia anche imporre delle scelte. Da Bruxelles interviene la vicecapodelegazione dem al Parlamento europeo, Alessandra Moretti, secondo cui “l’errore drammatico è continuare ad assistere al triste spettacolo di personalità troppo ingombranti che raccolgono sempre meno voti e sempre più veti”.
Nel dibattito interno si inserisce il sindaco di Milano Beppe Sala, per sottolineare che un “M5S sotto il 5% conferma che non ci si può appiattire su un Movimento che sta cercando un’identità e un principio di sopravvivenza. Ciò che palesemente è deficitario nel centrosinistra è la forza centrale”, evidenzia.
Dal Nazareno nessuna replica ufficiale. La sensazione, però, è che al M5s non si voglia rinunciare e che l’obiettivo resti ‘testardamente unitario’: tenere tutti insieme. Il dilemma è come. All’interno del mare di ringraziamenti pubblici ad Andrea Orlando per lo sforzo profuso, non mancano i veleni sulla sua performance. Un’accusa che i suoi respingono al mittente, numeri alla mano: Orlando ha trascinato il partito al 28,47% a livello regionale, cui si aggiunge il 7% circa delle sue liste civiche”, complessivamente “un terzo degli elettori”. Inoltre, “ha ottenuto oltre 13mila voti personali in più rispetto alle liste della sua coalizione”. Semmai, come ha rimarcato a urne chiuse l’ex ministro, il problema è stato un altro: “Siamo stati un po’ una cavia qui in Liguria e questo ci ha penalizzato. Spero che in futuro non si ripeta questo schema per il format del centrosinistra” con “uno che dice all’ultima settimana ‘no tu no’, con quelli che vogliono marcare la presenza, quelli che vogliono distinguersi”. Insomma, per le prossime sfide serve una traiettoria chiara sin dall’inizio. E la segretaria è sollecitata da più parti a tracciarla con fermezza.
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